IL TRIBUNALE 
 
    Nel giudizio instaurato per l'appello depositato il  18  dicembre
2012 nell'interesse di Ferrante Bruno, nato  a  Lecce  il  26  aprile
1947, in qualita' di Presidente del consiglio  di  amministrazione  e
legale rappresentante di ILVA S.p.a.; 
    Avverso l'ordinanza emessa dal GIP di Taranto in data 11 dicembre
2012, con la quale  veniva  rigettata  la  richiesta  di  revoca  del
sequestro   preventivo   del   prodotto   finito   e/o   semilavorato
dell'attivita'  dello  stabilimento  siderurgico  ILVA   di   Taranto
derivante dai processi produttivi dell'area a caldo; 
    Ricevuti gli atti in data 21 dicembre 2012; 
    Udito il Giudice relatore; 
    Sentiti il PM ed il difensore di fiducia comparsi  in  camera  di
consiglio; 
    Sciogliendo la riserva di cui all'udienza camerale dell'8 gennaio
2013; 
    Ha emesso la seguente ordinanza: 
    Va Premesso che in data 29 giugno 2012  i  PP.MM.  della  Procura
della Repubblica di  Taranto,  nell'ambito  del  procedimento  penale
indicato in epigrafe, chiedevano al G.I.P. in sede l'applicazione  di
misure cautelari personali e reali,  ipotizzando  a  carico  di  Riva
Emilio (presidente del consiglio di amministrazione dell'ILVA sino al
19  maggio  2010),  Riva  Nicola   (presidente   del   consiglio   di
amministrazione dell'ILVA  dal  19  maggio  2010),  Capogrosso  Luigi
(direttore dello stabilimento), Andelmi Marco (capo area  parchi  dal
27 aprile 2007), Cavallo Angelo (capo area agglomerato dal 27  aprile
2007), Dimaggio Ivan (capo  area  cokerie  dall'8  aprile  2003),  De
Felice Salvatore (capo area altoforno dal 9  dicembre  2003),  D'Alo'
Salvatore (capo area acciaieria 1 dall'8  aprile  2003  e  capo  area
acciaieria 2 dal 28 ottobre 2009) i seguenti reati: 
        a) artt. 81, 110 c.p.; 24, 25 D.P.R. n.  203/1988;  256,  279
d.lgs.  152/06,  perche',  in  esecuzione  di  un  medesimo   disegno
criminoso, in concorso tra loro, nelle  rispettive  qualita'  di  cui
sopra, realizzavano con continuita' e non  impedivano  una  quantita'
imponente di emissioni diffuse e fuggitive  nocive  in  atmosfera  in
assenza di  autorizzazione,  emissioni  derivanti  dall'area  parchi,
dall'area  cokeria,  dall'area  agglomerato,  dall'area   acciaieria,
nonche' dall'attivita' di smaltimento operata nell'area GRF  e  dalle
diverse «torce» dell'area acciaieria  a  mezzo  delle  quali  (torce)
smaltivano abusivamente una gran quantita' di rifiuti gassosi.  Tutte
emissioni che si diffondevano sia  all'interno  del  siderurgico,  ma
anche nell'ambiente urbano circostante  con  grave  pericolo  per  la
salute pubblica (capo cosi' precisato ed  integrato,  in  fatto,  dai
PP.MM con nota del 12 luglio 2012). 
    In Taranto dal 1995, sino alla data odierna e con permanenza; 
        b) artt. 110, 434, commi primo e secondo, c.p.,  perche',  in
concorso tra loro, nelle rispettive  qualita'  di  cui  sopra,  nella
gestione  dell'ILVA  di  Taranto  operavano  e  non  impedivano   con
continuita'  e  piena  consapevolezza  una   massiva   attivita'   di
sversamento nell'aria - ambiente di sostanze  nocive  per  la  salute
umana, animale e  vegetale,  diffondendo  tali  sostanze  nelle  aree
interne allo stabilimento, nonche' rurali ed  urbane  circostanti  lo
stesso. In particolare, IPA,  benzo(a)pirene,  diossine,  metalli  ed
altre polveri nocive determinando gravissimo pericolo per  la  salute
pubblica e cagionando eventi di malattia e  morte  nella  popolazione
residente nei quartieri vicino il siderurgico. 
    In Taranto-Statte dal 1995 e sino alla data odierna; 
        c) artt. 110, 437, commi 1 e 2, c.p.,  perche',  in  concorso
tra loro, nelle rispettive  qualita'  di  cui  sopra,  omettevano  di
collocare e comunque  omettevano  di  gestire  in  maniera  adeguata,
impianti ed apparecchiature idonee ad impedire lo sversamento di  una
quantita' imponente di emissioni diffuse e  fuggitive  in  atmosfera,
nocive per la salute dei lavoratori,  emissioni  derivanti  dall'area
parchi,   dall'area   cokeria,   dall'area   agglomerato,   dall'area
acciaieria, nonche' dall'attivita' di smaltimento  operata  nell'area
GRF.  Tutte  emissioni  che  si  diffondevano  sia  all'interno   del
siderurgico, ma anche  nell'ambiente  urbano  circostante  con  grave
pericolo per la salute dei lavoratori che subivano altresi' eventi di
danno alla salute stessa. 
    In Taranto dal 1995, sino alla data odierna e con permanenza; 
        d) artt. 110, 439 c.p., perche', in concorso tra loro,  nelle
rispettive  qualita'  di  cui  sopra,   attraverso   l'attivita'   di
sversamento delle sostanze  nocive  di  cui  ai  precedenti  capi  di
imputazione, provocavano  e  non  impedivano  la  contaminazione  dei
terreni ove insistevano diverse aziende agricole locali, in tal guisa
cagionando  l'avvelenamento  da  diossina  di  circa  2.271  capi  di
bestiame destinati all'alimentazione diretta e indiretta con  i  loro
derivati,  a  seguito  dell'attivita'  di  pascolo  esercitata  nelle
suddette aziende. Capi di bestiame poi abbattuti perche'  contaminati
da diossina e PCB e pericolosi per la salute umana. 
    In  Taranto-Statte  dal  1995,  sino  alla  data  odierna  e  con
permanenza; 
        e) artt. 81, comma 1, 110, 674, 639, commi  2  e  3,  e  635,
commi 1 e 2, n. 3),  c.p.,  perche',  in  concorso  tra  loro,  nelle
rispettive  qualita'  di  cui  sopra,  provocavano  e  comunque   non
impedivano,  omettendo  di  adottare  gli   opportuni   accorgimenti,
continui  e  permanenti  sversamenti  nell'ambiente  circostante   di
minerali e polveri riconducibili ai  materiali  depositati  presso  i
Parchi Minerali ILVA e/o aree di produzione ubicate all'interno dello
stabilimento, nonche'  alle  aree  cokeria,  agglomerato,  altoforno,
acciaieria e GRF, tali da offendere, imbrattare e molestare  persone,
in considerazione di una esposizione continua e giornaliera,  nonche'
da deturpare, imbrattare  e  danneggiare,  sia  dal  punto  di  vista
strutturale   che   del   ridotto   valore   patrimoniale-commerciale
conseguente  all'insalubre  ambiente  inquinato,  decine  di  edifici
pubblici e privati di cui  alle  denunce  in  atti  (come  da  elenco
allegato), tutti ubicati nel Quartiere Tamburi del Comune di  Taranto
e nelle immediate vicinanze dello stabilimento siderurgico (cimitero,
giardini  e  parchi  pubblici,  impianti  sportivi,  strade,  private
abitazioni, ecc.). Con l'aggravante  di  danno  arrecato  ad  edifici
pubblici o destinati all'esercizio di un culto. 
    In Taranto dal 1995, sino alla data odierna e con permanenza. 
    Con recidiva specifica reiterata per Capogrosso Luigi. 
    In data 25 luglio 2012 il G.I.P. in sede, accogliendo entrambe le
richieste dei PP.MM.: 
        emetteva ordinanza applicativa  della  misura  degli  arresti
domiciliari, presso le rispettive, abitazioni, nei confronti di tutti
gli indagati; 
        con separato provvedimento, disponeva il sequestro preventivo
delle seguenti aree e degli impianti e materiali ivi esistenti, dello
stabilimento siderurgico ILVA S.p.A. di Taranto:  Area  parchi,  Area
cokerie, Area agglomerato, Area altiforni, Area acciaierie, Area  GRF
(Gestione rottami ferrosi), nominando quali custodi e  amministratori
dei predetti  impianti,  per  tutti  gli  aspetti  tecnico-operativi,
l'ing. Barbara Valenzano (Dirigente  del  Servizio  tecnologie  della
sicurezza e Gestione dell'emergenza presso la  Direzione  scientifica
dell'ARPA Puglia) coadiuvata dall'ing. Emanuela Laterza  (funzionario
presso  lo  stesso   Servizio)   e   dall'ing.   Claudio   Lofrumento
(funzionario presso il Servizio impiantistico e  rischio  industriale
del Dipartimento provinciale ambientale di Bari) - con il compito  di
avviare "immediatamente le procedure tecniche e di sicurezza  per  il
blocco delle specifiche lavorazioni e lo spegnimento  degli  impianti
sopra indicati, sovrintendendo alle operazioni  ed  assicurandone  lo
svolgimento nella rigorosa osservanza  delle  prescrizioni  a  tutela
della sicurezza ed incolumita' pubblica e a tutela  della  integrita'
degli impianti" - e, per tutti gli  aspetti  amministrativi  connessi
alla gestione degli impianti sottoposti a sequestro e  del  personale
addetto agli stessi, il dottor Mario Tagarelli, iscritto all'Albo dei
Commercialisti di Taranto. 
    Il Tribunale del riesame di Taranto, adito su  ricorso  di  tutti
gli indagati e del nuovo legale rappresentante di ILVA S.p.A.,  dott.
Ferrante  Bruno,  con  provvedimento  del  7  agosto  2012  (le   cui
motivazioni venivano depositate il successivo 20 agosto): 
        annullava l'ordinanza di applicazione della misura  cautelare
degli arresti domiciliari nei confronti  di  Andelmi  Marco,  Cavallo
Angelo, Dimaggio Ivan, De Felice Salvatore  e  D'Alo'  Salvatore  per
difetto di esigenze cautelari, confermandola nei  confronti  di  Riva
Emilio, Riva Nicola e Capogrosso Luigi; 
        in parziale modifica  del  decreto  di  sequestro  preventivo
impugnato,  ferma  restando  la  nomina   degli   ingegneri   Barbara
Valenzano, Emanuela Laterza e Claudio Lofrumento, nominava custode  e
amministratore delle aree e degli  impianti  in  sequestro  il  dott.
Bruno Ferrante nella sua qualita'  di  presidente  del  C.d.A.  e  di
legale rappresentate di ILVA S.p.A., revocando la  nomina  del  dott.
Mario Tagarelli e disponeva che i custodi garantissero  la  sicurezza
degli impianti e li utilizzassero in funzione della realizzazione  di
tutte le misure tecniche necessarie per eliminare  le  situazioni  di
pericolo e della attuazione di un sistema di monitoraggio in continuo
delle  emissioni  inquinanti,  confermando  nel  resto   il   decreto
impugnato. 
    La  nomina  del  dott.  Ferrante   quale   custode-amministratore
giudiziario veniva  revocata  dal  GIP  l'11  agosto  2012,  ma  tale
provvedimento  veniva  dichiarato  "inefficace"  dal  Tribunale   del
riesame di  Taranto,  in  funzione  di  giudice  dell'esecuzione  con
ordinanza del 28 agosto 2012, la cui efficacia - a sua volta - veniva
pero' sospesa con provvedimento del  22  ottobre  2012  dal  medesimo
Tribunale in diversa composizione (con conseguente  ripristino  delle
determinazioni adottate dal GIP con il  decreto  emesso  l'11  agosto
2012). 
    Va comunque rilevato  che  il  provvedimento  del  Tribunale  del
riesame inerente il sequestro preventivo delle  aree  a  caldo  dello
stabilimento non veniva impugnato innanzi alla Corte di cassazione da
ILVA S.p.A. 
    In data 27 ottobre 2012  veniva  pubblicato  il  decreto  del  26
ottobre 2012 di riesame dell'Autorizzazione integrata ambientale  per
l'esercizio dell'impianto siderurgico della societa' ILVA di Taranto. 
    Con successivo decreto ex art. 321 c.p.p., emesso il 22  novembre
2012 su richiesta dei PP.MM. di Taranto, il GIP  presso  il  medesimo
tribunale disponeva il sequestro preventivo del prodotto  finito  e/o
semilavorato dell'attivita' del siderurgico ILVA S.p.A.  di  Taranto,
derivante dai processi produttivi dell'area a caldo  esistente  nelle
relative aree di  stoccaggio  e  destinato  alla  vendita  ovvero  al
trasferimento in altri stabilimenti del gruppo e disponeva, altresi',
l'affidamento dei sequestrandi beni  ai  custodi-amministratori  gia'
nominati  nell'ambito  del  presente   procedimento,   dottor   Mario
Tagarelli e ingegneri Barbara Valenzano, Emanuela Laterza  e  Claudio
Lofrumento. 
    Nel predetto provvedimento si dava atto che si stava procedendo a
carico di: 
        Riva Emilio,  Riva  Nicola,  Riva  Arturo  Fabio,  Capogrosso
Luigi, Archina' Girolamo 
        a) per il delitto di cui all'art. 416,  comma  1  e  2,  c.p.
perche' partecipavano ad  un'associazione  per  delinquere  promossa,
capeggiata e diretta da Riva Emilio, Riva Nicola, Riva Arturo Fabio e
Capogrosso Luigi allo scopo di  commettere  piu'  delitti  contro  la
pubblica incolumita' e segnatamente quelli di cui agli artt. 434, 437
e 439 c.p. nonche' delitti contro la pubblica  amministrazione  e  la
fede pubblica, quali fatti di corruzione, falsi e abuso d'ufficio. In
particolare: Riva Emilio (quale Presidente del C.d.A ILVA S.p.a. sino
al 19 maggio 2010, attualmente Presidente del C.d.A. di RIVA F.I.R.E.
S.p.a.), Riva Nicola (quale Presidente del C.d.A. ILVA S.p.a. dal  19
maggio 2010 sino al  9  luglio  2012,  in  precedenza  consigliere  e
consigliere  delegato,  attualmente  Procuratore  speciale  di   RIVA
F.I.R.E. S.p.a.), Riva Arturo Fabio (quale Vice Presidente del C.d.A.
dell'ILVA S.p.a., consigliere ed amministratore delegato sino  al  22
maggio 2007, attualmente Vice Presidente del C.d.A. di RIVA  F.I.R.E.
S.p.a.)  e  Capogrosso  Luigi  (quale  Direttore  e   gestore   dello
stabilimento ILVA sino al 3 luglio 2012 e dipendete ILVA S.p.a.  sino
al 28 settembre 2012) provvedevano, come promotori ed  organizzatori,
ad intrattenere costanti contatti tra loro  stessi  ed  Archina',  al
fine di individuare le problematiche  che  non  avrebbero  consentito
l'emissione  di  provvedimenti  autorizzativi  nei  confronti   dello
stabilimento ILVA S.p.a., concordando cosi' le  possibili  soluzioni,
individuando i soggetti di vari livelli (politico/istituzionale, mass
media,  organizzazioni  sindacali,  settore  scientifico,  clero)  da
contattare, le disposizioni da impartire a funzionari e incaricati di
vari uffici, provvedendo anche a concordare in anticipo il  contenuto
di documenti ufficiali che dovevano  essere  emanati  ed  indirizzati
allo stesso stabilimento  ILVA  S.p.a.,  al  fine  di  ridimensionare
problematiche anche gravi in materia ambientale  ovvero  al  fine  di
consentire al predetto stabilimento  la  prosecuzione  dell'attivita'
produttiva senza il rispetto anzi  in  totale  violazione  e  spregio
della normativa  vigente,  in  cio'  facendo  leva  anche  sul  ruolo
specifico ricoperto da taluni dei  soggetti  contattati,  ingenerando
talvolta nei medesimi la fondata convinzione di dover sottostare alle
indicazioni/pressioni ricevute, per evitare il pericolo di subire  un
pregiudizio, giungendo persino a compiere fatti di corruzione e falso
in relazione ad atti di un procedimento penale nell'ambito del  quali
gli stessi  risultavano  essere  indagati;  Archina  Girolamo  (quale
responsabile/addetto alle relazioni esterne dello  stabilimento  ILVA
S.p.a.) provvedeva, come partecipe, a  fornire  il  suo  fondamentale
apporto nella realizzazione dei reati scopo del sodalizio, in quanto,
in perfetta unita' d'intenti con i vertici della proprieta'  e  della
dirigenza dello stabilimento ILVA S.p.a., intratteneva  costantemente
contatti con gli esponenti dei vari settori di  interesse,  recandosi
personalmente presso i loro uffici o chiamandoli  direttamente  sulle
loro utenze cellulari, premendo per il buon  esito  di  ogni  singola
richiesta  e  per  l'ottenimento  delle   autorizzazioni   necessarie
all'esercizio delle attivita' produttiva al di fuori  dei  limiti  di
legge, provvedendo  in  un'occasione  a  consegnare  materialmente  a
Liberti Lorenzo la somma di denaro  di  euro  10.000,00  (diecimila),
attinta dalle disponibilita' di ILVA S.p.a., quale  retribuzione  non
dovuta in quanto corrisposta per l'avvenuta commissione  di  un  atto
contrario ai doveri di ufficio ed in particolare per  falsificare  il
contenuto di una consulenza tecnica disposta dal P.M. 
    In Taranto dal 1995, sino alla  data  odierna  e  con  permanenza
ovvero con riferimento  ad  ogni  singola  posizione  dalla  data  di
assunzione della carica e/o sino alla cessazione della stessa; 
        Riva Emilio,  Riva  Nicola,  Riva  Arturo  Fabio,  Capogrosso
Luigi, Andelmi Marco, Cavallo  Angelo,  Di  Maggio  Ivan,  De  Felice
Salvatore, D'Alo' Salvatore,  Archina'  Girolamo,  Ferrante  Bruno  e
Buffo Adolfo 
        b) per i reati di cui agli artt. 81 cpv, 110, 112 n. 1  c.p.;
24,  25  D.P.R.  n.  203/88;  256,  279  d.lgs.  152/06  perche',  in
esecuzione di un medesimo disegno criminoso, in  concorso  tra  loro,
nelle rispettive qualita' di cui sopra, realizzavano con  continuita'
e non impedivano una  quantita'  imponente  di  emissioni  diffuse  e
fuggitive nocive in atmosfera in assenza di autorizzazione, emissioni
derivanti  dall'area  cokeria,   dall'area   agglomerato,   dall'area
acciaieria, nonche' dall'attivita' di smaltimento  operata  nell'area
GRF e dalle diverse "torce" dell'area acciaieria a mezzo delle  quali
(torce)  smaltivano  abusivamente  una  gran  quantita'  di   rifiuti
gassosi. Tutte emissioni che  si  diffondevano  sia  all'interno  del
siderurgico, ma anche  nell'ambiente  urbano  circostante  con  grave
pericolo per la salute pubblica. Con l'aggravante  del  numero  delle
persone concorrenti nel reato. 
    In Taranto dal 1995, sino alla  data  odierna  e  con  permanenza
ovvero con riferimento  ad  ogni  singola  posizione  dalla  data  di
assunzione della carica e/o sino alla cessazione della stessa; 
        Riva Emilio,  Riva  Nicola,  Riva  Arturo  Fabio,  Capogrosso
Luigi, Andelmi Marco, Cavallo  Angelo,  Di  Maggio  Ivan,  De  Felice
Salvatore, D'Alo' Salvatore,  Archina'  Girolamo,  Ferrante  Bruno  e
Buffo Adolfo 
        c) per il delitto di cui agli artt. 110, 112 n. 1, 434, comma
primo e secondo, c.p. perche', in concorso tra loro, nelle rispettive
qualita' di cui sopra, nella gestione dell'ILVA di Taranto  operavano
e non impedivano con continuita' e piena consapevolezza  una  massiva
attivita' di sversamento nell'aria - ambiente di sostanze nocive  per
la salute umana, animale e vegetale, diffondendo tali sostanze  nelle
aree interne allo stabilimento, nonche' rurali ed urbane  circostanti
lo stesso. In particolare, IPA, benzo(a)pirene, diossine, metalli  ed
altre polveri nocive determinando gravissimo pericolo per  la  salute
pubblica e cagionando eventi di malattia e  morte  nella  popolazione
residente  nei  quartieri  vicino  il  siderurgico.  Con  l'ulteriore
aggravante del numero delle persone concorrenti nel reato. 
    In Taranto-Statte dal 1995 e sino alla data  odierna  ovvero  con
riferimento ad ogni singola posizione dalla data di assunzione  della
carica e/o sino alla cessazione della stessa; 
        Riva Emilio,  Riva  Nicola,  Riva  Arturo  Fabio,  Capogrosso
Luigi, Andelmi Marco, Cavallo  Angelo,  Di  Maggio  Ivan,  De  Felice
Salvatore, D'Alo' Salvatore,  Archina'  Girolamo,  Ferrante  Bruno  e
Buffo Adolfo 
        d) per il delitto di cui agli artt. 110, 112 n. 1, 437, comma
1, 2, c.p. perche', in concorso tra loro, nelle  rispettive  qualita'
di cui sopra,  omettevano  di  collocare  e  comunque  omettevano  di
gestire in maniera adeguata, impianti ed  apparecchiature  idonee  ad
impedire lo sversamento  di  una  quantita'  imponente  di  emissioni
diffuse  e  fuggitive  in  atmosfera,  nocive  per  la   salute   dei
lavoratori, emissioni derivanti dall'area parchi, dall'area  cokeria,
dall'area agglomerato, dall'area acciaieria,  nonche'  dall'attivita'
di  smaltimento  operata  nell'area  GRF.  Tutte  emissioni  che   si
diffondevano sia all'interno del siderurgico, ma anche  nell'ambiente
urbano circostante con grave pericolo per la  salute  dei  lavoratori
che subivano  altresi'  eventi  di  danno  alla  salute  stessa.  Con
l'ulteriore aggravante  del  numero  delle  persone  concorrenti  nel
reato. 
    In Taranto dal 1995, sino alla  data  odierna  e  con  permanenza
ovvero con riferimento  ad  ogni  singola  posizione  dalla  data  di
assunzione della carica e/o sino alla cessazione della stessa; 
        Riva Emilio,  Riva  Nicola,  Riva  Arturo  Fabio,  Capogrosso
Luigi, Andelmi Marco, Cavallo  Angelo,  Di  Maggio  Ivan,  De  Felice
Salvatore, D'Alo' Salvatore,  Archina'  Girolamo,  Ferrante  Bruno  e
Buffo Adolfo 
        e) per il delitto di cui agli artt. 110, 112 n. 1,  439  c.p.
perche', in concorso tra  loro,  nelle  rispettive  qualita'  di  cui
sopra, attraverso l'attivita' di sversamento delle sostanze nocive di
cui ai precedenti capi di imputazione, provocavano e  non  impedivano
la  contaminazione  dei  terreni  ove  insistevano  diverse   aziende
agricole locali, in tal guisa cagionando l'avvelenamento da  diossina
di circa 2.271 capi di bestiame destinati all'alimentazione diretta e
indiretta con i loro derivati, a seguito  dell'attivita'  di  pascolo
esercitata nelle suddette aziende. Capi  di  bestiame  poi  abbattuti
perche' contaminati da diossina e PCB  e  pericolosi  per  la  salute
umana. Con l'aggravante del  numero  delle  persone  concorrenti  nel
reato. 
    In  Taranto-Statte  dal  1995,  sino  alla  data  odierna  e  con
permanenza ovvero con riferimento ad  ogni  singola  posizione  dalla
data di assunzione  della  carica  e/o  sino  alla  cessazione  della
stessa; 
        Riva Emilio,  Riva  Nicola,  Riva  Arturo  Fabio,  Capogrosso
Luigi, Andelmi Marco, Cavallo  Angelo,  Di  Maggio  Ivan,  De  Felice
Salvatore, D'Alo' Salvatore,  Archina'  Girolamo,  Ferrante  Bruno  e
Buffo Adolfo 
        f) per i reati di cui agli artt. 81 e 1, 110, 112 n. 1,  674,
639, c. 2 e 3, e 635 c. 1 e 2 n. 3, c.p.  perche',  in  concorso  tra
loro, nelle rispettive qualita' di cui sopra, provocavano e  comunque
non impedivano, omettendo di  adottare  gli  opportuni  accorgimenti,
continui  e  permanenti  sversamenti  nell'ambiente  circostante   di
minerali e polveri riconducibili ai  materiali  depositati  presso  i
Parchi minerali ILVA e/o aree di produzione ubicate all'interno dello
stabilimento, nonche'  alle  aree  cokeria,  agglomerato,  altoforno,
acciaieria e GRF, tali da offendere, imbrattare e molestare  persone,
in considerazione di una esposizione continua e giornaliera,  nonche'
da deturpare, imbrattare  e  danneggiare,  sia  dal  punto  di  vista
strutturale   che   del   ridotto   valore   patrimoniale-commerciale
conseguente  all'insalubre  ambiente  inquinato,  decine  di  edifici
pubblici e privati di cui  alle  denunce  in  atti  (come  da  elenco
allegato), tutti ubicati nel quartiere Tamburi del Comune di  Taranto
e nelle immediate vicinanze dello stabilimento siderurgico (cimitero,
giardini  e  parchi  pubblici,  impianti  sportivi,  strade,  private
abitazioni, ecc.). Con le aggravanti di  danno  arrecato  ad  edifici
pubblici o destinati  all'esercizio  di  un  culto  e  delle  persone
concorrenti nel reato. 
    In Taranto dal 1995, sino alla  data  odierna  e  con  permanenza
ovvero con riferimento  ad  ogni  singola  posizione  dalla  data  di
assunzione della carica e/o sino alla cessazione della stessa. 
    Con recidiva specifica reiterata per Capogrosso Luigi. 
    Rilevava il GIP che, nonostante l'emanazione del provvedimento di
sequestro preventivo del 25 luglio 2012, confermato dal Tribunale del
riesame e nonostante le direttive del P.M., non risultava «che l'ILVA
abbia deciso di dare pratica esecuzione al suddetto provvedimento  al
di la' delle numerose "carte" trasmesse al P.M. che nulla di concreto
per l'eliminazione immediata delle emissioni nocive statuiscono». 
    Ritenendo,  pertanto,  che   l'attivita'   produttiva   dell'ILVA
successiva al sequestro fosse caratterizzata dalla  piena  illiceita'
penale, l'acciaio, frutto dell'attivita' in tale modo posta in essere
dal siderurgico, non poteva che essere considerato il "prodotto"  dei
reati sopra  contestati  e,  quindi,  cosa  pertinente  agli  stessi,
confiscabile - in caso di condanna - a mente dell'art.  240  comma  l
c.p. 
    Il sequestro preventivo del  prodotto  veniva  percio'  disposto,
tanto ai sensi dell'art. 321, comma 2 c.p.p. (secondo cui il  giudice
puo' disporre il  sequestro  delle  cose  di  cui  e'  consentita  la
confisca), quanto ai sensi del primo comma del predetto articolo  321
c.p.p., ritenendo che la libera disponibilita' del prodotto finito  o
semi-lavorato e la  conseguente  possibilita'  della  sua  remunerata
collocazione sul mercato, stesse incentivando gli organi aziendali  a
perseverare, nell'ottica di ulteriori profitti, immediati  e  futuri,
nella produzione industriale con modalita'  contrarie  alla  legge  e
comunque pericolose per la  salute  pubblica,  perpetuando  di  fatto
quella "gravissima situazione di  emergenza  ambientale  e  sanitaria
accertata nel corso delle indagini"  diffusamente  rappresentata  nel
richiamato decreto del 25 luglio u.s. 
    Avverso tale provvedimento di  sequestro  Ferrante  Bruno,  quale
legale rappresentante di ILVA S.p.A., proponeva istanza  di  riesame,
depositata  in  cancelleria  il   28   novembre   2012,   rinunciando
successivamente alla impugnazione proposta con atto  del  4  dicembre
2012 (il tribunale del riesame  adito,  all'udienza  del  6  dicembre
2012, dichiarava  pertanto  inammissibile  il  gravame  ex  art.  591
c.p.p.). 
    Con due distinti atti depositati il 4  dicembre  2012  presso  la
Procura della Repubblica di Taranto Ferrante  Bruno,  nella  medesima
qualita', chiedeva l'immediata esecuzione del disposto degli artt.  2
e 3, comma 3°, del d.lgs. 207/2012, con  riferimento  tanto  ai  beni
oggetto del sequestro preventivo del 25 luglio 2012, quanto di quelli
oggetto del sequestro preventivo del 22 novembre 2012. 
    In particolare l'art. 2 del  predetto  D.L.  stabiliva  che  "Nei
limiti consentiti dal presente decreto, rimane in  capo  ai  titolari
dell'autorizzazione integrata ambientale di cui all'articolo 1, comma
1, la gestione e la responsabilita' della conduzione  degli  impianti
di interesse strategico nazionale anche ai  fini  dell'osservanza  di
ogni obbligo, di legge o disposto  in  via  amministrativa,  e  ferma
restando l'attivita' di controllo dell'autorita' di cui  all'articolo
29-decies, comma 3, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152,  e
successive modificazioni" ed ai sensi del successivo art. 3, premesso
che l'impianto siderurgico della  societa'  ILVA  S.p.A.  di  Taranto
costituiva "stabilimento di interesse strategico  nazionale  a  norma
dell'articolo  1"  (comma  1°)  e  che   l'autorizzazione   integrata
ambientale rilasciata in data 26  ottobre  2012  alla  societa'  ILVA
S.p.A. con decreto del Ministro  dell'ambiente  e  della  tutela  del
territorio e del mare prot. n. DVA/DEC/2012/0000547,  nella  versione
di cui al comunicato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n.  252  del
27 ottobre 2012, conteneva "le prescrizioni volte  ad  assicurare  la
prosecuzione dell'attivita' produttiva dello stabilimento siderurgico
della societa' ILVA S.p.A. di Taranto a norma dell'articolo 1" (comma
2°), si decretava, al terzo comma, che "a  decorrere  dalla  data  di
entrata in vigore del presente decreto, la societa'  ILVA  S.p.A.  di
Taranto e' immessa nel possesso dei beni dell'impresa ed e'  in  ogni
caso autorizzata, nei limiti consentiti dal provvedimento di  cui  al
comma  2,   alla   prosecuzione   dell'attivita'   produttiva   nello
stabilimento ed alla conseguente commercializzazione dei prodotti per
un periodo di 36 mesi, ferma  restando  l'applicazione  di  tutte  le
disposizioni contenute nel presente decreto". 
    Decidendo sulle due richieste, la  Procura  della  Repubblica  di
Taranto emanava  un  provvedimento  con  il  quale  -  permanendo  il
sequestro  -  reimmetteva  l'ILVA   nel   possesso   degli   impianti
sequestrati  il  25  luglio,  ma  esprimeva  parere  negativo   sulla
restituzione  all'azienda  dei  prodotti   finiti   e   semilavorati,
trasmettendo gli atti al GIP  che,  con  ordinanza  dell'11  dicembre
2012, rigettava la relativa istanza proposta da ILVA S.p.A. 
    Avverso  tale  ultimo  provvedimento  di  rigetto   la   societa'
proponeva appello con atto depositato il 18 dicembre 2012, eccependo: 
        la insussistenza del fumus dei reati contestati,  sulla  base
della liceita' dell'attivita' di impresa  che  aveva  determinato  la
realizzazione del prodotto sequestrato; 
        la mancanza ed illogicita'  della  motivazione  in  relazione
alla pretesa illiceita' della produzione; 
        la mancanza di  motivazione  ed  erronea  applicazione  della
fattispecie di cui agli artt. 321, comma 2° c.p.p.  e  240  comma  1°
c.p.; 
        l'erronea esegesi ed omessa applicazione del D.L. 207/2012; 
        chiedendo, pertanto, l'annullamento dell'impugnata  ordinanza
e la restituzione del prodotto in sequestro. 
    In data 3 gennaio 2013 veniva pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale
la legge n. 231 del 24.12.2012, di conversione con modificazioni  del
D.L. 207/2012. In particolare il succitato terzo  comma  dell'art.  3
veniva cosi' modificato: "A decorrere dalla data di entrata in vigore
del presente decreto, per un periodo di trentasei mesi,  la  societa'
ILVA S.p.A. di Taranto e' immessa nel possesso dei beni  dell'impresa
ed  e'  in  ogni  caso  autorizzata,  nei   limiti   consentiti   dal
provvedimento di cui al comma  2,  alla  prosecuzione  dell'attivita'
produttiva  nello  stabilimento  e   alla   commercializzazione   dei
prodotti, ivi compresi quelli realizzati antecedentemente  alla  data
di  entrata  in  vigore  del   presente   decreto,   ferma   restando
l'applicazione  di  tutte  le  disposizioni  contenute  nel  medesimo
decreto". 
    Fissata all'8 gennaio 2013 l'udienza di comparazioni delle parti,
in quella sede il PM produceva ulteriore documentazione e chiedeva al
Tribunale  di  sollevare  eccezione  di  legittimita'  costituzionale
"delle norme contenute nel decreto legge n. 207/2012 come  convertito
nella legge 24 dicembre 2012, n. 231. In particolare degli articoli 1
e 3 del suddetto decreto legge  ...  perche'  in  contrasto  con  gli
articoli 3,9,24,25,27,32,101,102,103,104,117 della Costituzione". 
    La difesa insisteva per l'accoglimento  dell'appello  e  deduceva
l'irrilevanza e/o la manifesta infondatezza della suddetta  questione
di legittimita' costituzionale, depositando il successivo 10  gennaio
2013, su autorizzazione del Tribunale che aveva  riservato  all'esito
dell'udienza la decisione, una memoria difensiva per  replicare  alle
deduzioni mosse del PM nell'ambito dell'istanza di  rimessione  degli
atti alla corte costituzionale. 
La questione di legittimita' costituzionale dell'art. 3, legge n. 231
del 24 dicembre 2012 e' rilevante e non manifestamente infondata. 
    E invero solo  l'applicazione  del  predetto  articolo  di  legge
determinerebbe,  in  forza  dello  ius  superveniens,  l'accoglimento
dell'appello proposto nell'interesse di ILVA S.p.A. 
    Sussistono tuttavia profili di illegittimita' costituzionale, non
manifestamente infondati, della norma di legge che  questo  Tribunale
dell'appello  dovrebbe  applicare  per  la  decisione  del   proposto
gravame, rendendosi pertanto necessaria la sospensione del giudizio e
la trasmissione degli atti al Giudice delle leggi, a norma  dell'art.
23, legge n. 87/1953. 
Sulla rilevanza della questione. 
    Va innanzitutto rilevato che la  rinuncia  al  riesame,  proposto
dalla  odierna  parte  appellante,  avverso  il  citato  decreto   di
sequestro preventivo del GIP emesso il 22 novembre 2012, sul prodotto
finito  e/o  semilavorato  dell'attivita'  del  siderurgico  ILVA  di
Taranto, non rende di per  se'  inammissibili  i  motivi  di  appello
riguardanti i presupposti di  applicabilita'  del  vincolo  cautelare
reale, come eccepito dal PM, dovendosi necessariamente procedere,  da
parte dell'odierno Collegio, al loro esame nel merito (non  essendosi
verificato alcun giudicato cautelare). 
    Come, infatti,  recentemente  chiarito  dalla  Suprema  Corte  la
mancata tempestiva proposizione,  da  parte  dell'interessato,  della
richiesta di riesame avverso  il  provvedimento  applicativo  di  una
misura cautelare reale non ne preclude  la  revoca  per  la  mancanza
delle condizioni di  applicabilita',  neanche  in  assenza  di  fatti
sopravvenuti (cfr. Cass. sez. U, Sentenza  n.  29952  del  24  maggio
2004); alla stessa stregua l'inammissibilita'  dell'impugnazione  per
effetto della relativa rinuncia non determina, al pari della  mancata
impugnazione, le preclusioni da cosiddetto giudicato  cautelare,  che
non si estende a tutte le questioni deducibili, bensi' esclusivamente
a quelle che sono state dedotte ed effettivamente decise (cfr.  Cass.
sez. 3, Sentenza n. 535 del 1° dicembre 2010; Cass. sez. 4,  Sentenza
n. 32929 del 4 giugno 2009). 
    Il  giudizio  di  rilevanza  della  questione   di   legittimita'
costituzionale sollevata dalla  Procura  di  Taranto  passa,  dunque,
necessariamente per la valutazione sulla sussistenza dei  presupposti
per il mantenimento del sequestro preventivo disposto dal GIP, atteso
che l'eventuale accoglimento dell'appello sotto il profilo del  fumus
commissi delicti e/o  del  periculun  in  mora  renderebbe  superfluo
l'esame della applicabilita', nella presente fattispecie, delle norme
contenute nella legge 231/2012, che  sostanzialmente  autorizzano  la
commercializzazione del prodotto realizzato da  ILVA  spa,  anche  se
sottoposto a sequestro preventivo (imponendo, come  si  dira'  infra,
l'adozione di un provvedimento di dissequestro  della  res,  a  causa
della ontologica incompatibilita' tra la sua immissione in  commercio
e la permanenza della misura cautelare reale). 
    A tale riguardo appare  opportuno  precisare  che,  alla  stregua
della costante giurisprudenza  della  Corte  di  cassazione  (con  le
specificazioni indicate dalle Sezioni Unite con la nota  sentenza  29
gennaio 1997, n. 23; cfr. anche Cass., sez. V,  20  giugno  2011,  n.
24589), nei procedimenti incidentali aventi ad oggetto  provvedimenti
di sequestro non e' ipotizzabile una cognizione piena.  Al  Tribunale
e'  conferita  esclusivamente  la  competenza   a   conoscere   della
legittimita' dell'esercizio  della  funzione  processuale  attribuita
alla misura ed a verificare, quindi, la correttezza del perseguimento
degli obiettivi endoprocessuali che sono  propri  della  stessa,  con
l'assenza di ogni ulteriore potere conoscitivo relativo al fondamento
dell'accusa  (riservato,  invece,   al   giudice   del   procedimento
principale), a meno che la stessa si prospetti, allo stato degli atti
e sulla base  fattuale  del  singolo  caso  concreto,  giuridicamente
infondata (Cass., sez. V, 12 maggio 2010, n. 18078). 
    Tale interpretazione  restrittiva  della  cognizione  incidentale
risponde all'esigenza di  far  fronte  al  pericolo  di  un  utilizzo
surrettizio della relativa procedura per un  preventivo  accertamento
sul merito della causa,  cosi'  da  determinare  una  non  consentita
pre-verifica della fondatezza dell'accusa il  cui  oggetto  finirebbe
per  compromettere  inevitabilmente   la   rigida   attribuzione   di
competenze nell'ambito di un medesimo procedimento sancita dal codice
di procedura penale. 
    L'accertamento  della  sussistenza  del  cd.  fumus  delicti   va
compiuto, dunque, sotto il profilo della  congruita'  degli  elementi
rappresentati, che non possono essere censurati da un punto di  vista
meramente  fattuale  per  valutarne  la  coincidenza  con  le   reali
risultanze processuali. 
    Tali elementi vanno, invece, valutati cosi' come esposti al  fine
di verificare  se  consentano,  in  una  prospettiva  di  ragionevole
probabilita', di sussumere l'ipotesi formulata nella contestazione in
quella tipica. 
    Il Tribunale, nella valutazione delle misure cautelaci reali, non
deve dunque instaurare un cd. "processo nel  processo",  bensi'  deve
esclusivamente svolgere  una  indispensabile  funzione  di  garanzia,
tenendo nel debito conto le  contestazioni  difensive  sull'esistenza
della  fattispecie  dedotta  ed   esaminando   sotto   ogni   aspetto
l'integralita' dei presupposti che legittimano  il  sequestro;  cosi'
che  solo  la  manifesta,  assoluta  ed  evidente  inconfigurabilita'
dell'ipotesi di reato, per come rappresentata dall'organo  procedente
(e pur tenendo conto per  l'appunto  delle  osservazioni  difensive),
consente di addivenire alla revoca del sequestro. 
    Piu' recentemente la Suprema Corte ha chiarito che  il  Tribunale
del riesame (e di conseguenza il Tribunale di  appello  ex  art,  310
c.p.p.) non deve tuttavia limitarsi a  verificare  la  sola  astratta
configurabilita' del reato ma deve tener conto, in  modo  puntuale  e
coerente, delle  concrete  risultanze  processuali  e  dell'effettiva
situazione emergente dagli elementi forniti dalle  parti,  indicando,
sia pure sommariamente, le ragioni che rendono allo stato sostenibile
l'impostazione accusatoria (cfr. Cass., sez. III, 9 luglio  2010,  n.
26197; Cass., sez. III, 16 luglio 2010, n. 27715),  essendo  comunque
pacificamente preclusi al Tribunale poteri istruttori. 
    Facendo applicazione dei summenzionati principi giurisprudenziali
nella  presente  fattispecie,  appaiono  in  toto  condivisibili   le
argomentazioni addotte dal GIP  per  la  emanazione  del  decreto  di
sequestro del prodotto finito e/o semilavorato derivante dai processi
produttivi delle aree a caldo dello stabilimento siderurgico ILVA  di
Taranto, a loro volta sottoposte  a  sequestro  penale  e  realizzato
successivamente  all'esecuzione   del   predetto   provvedimento   di
sequestro emesso il 25 luglio 2012. 
    In riferimento al fumus commissi delicti il GIP scrive: 
    «Con provvedimento del 25 luglio 2012 questo g.i.p., su richiesta
della Procura della Repubblica di Taranto,  sottoponeva  a  sequestro
preventivo diverse aree e impianti dell'ILVA di  Taranto  in  ragione
della chiara attivita' inquinante, dannosa per  la  salute  umana  ed
animale e per l'ambiente circostante, derivante dalle  suddette  aree
ed impianti. 
    In particolare,  erano  sottoposte  a  sequestro  l'area  parchi,
l'area  cokerie,  l'area  agglomerato,   l'area   altiforni,   I'area
acciaierie e l'area GRF. 
    Concordemente a quanto  accertato  dal  P.M.  e  sostenuto  nella
relativa richiesta, nel decreto di sequestro si evidenziava come, nel
corso degli anni, ed attualmente, dallo stabilimento  siderurgico  di
Taranto si riversava (e si riversa) nell'ambiente circostante, urbano
e non, una quantita' rilevante di sostanze altamente  nocive  per  la
salute umana tra le quali diossina  e  benzo(a)pirene,  sostanze  cha
avevano  determinato  un  vero  e  proprio  disastro  ambientale   di
proporzioni impressionanti con conseguente avvelenamento di  sostanze
alimentari destinate al  consumo  umano,  pericolo  per  la  pubblica
incolumita' e degli stessi lavoratori del siderurgico. 
    Veniva quindi riconosciuta la sussistenza dei fatti  che  avevano
portato alla configurazione dei reati sopra indicati. 
    Con un'articolata istanza, la difesa proponeva riesame avverso il
suddetto sequestro.  Il  7  agosto  2012  il  Tribunale  del  riesame
confermava il provvedimento di sequestro (parzialmente modificando le
- sole  -  disposizioni  relative  ai  profili  della  esecuzione  ed
amministrazione-custodia  dei  beni),  rigettando   l'istanza   della
difesa.  Nessun  ricorso  per  cassazione  era  avanzato  avverso  la
decisione del Tribunale. 
    Il giudice del riesame, concordando con  le  tesi  sostenute  dal
P.M. ed accolte  da  questo  g.i.p.,  chiariva  definitivamente  come
obiettivo primario del sequestro e dell'attivita' dei custodi  doveva
essere l'eliminazione delle emissioni nocive e l'utilizzazione  degli
impianti solo a  tali  fini  e  non  a  fini  produttivi,  escludendo
qualsiasi facolta' d'uso. 
    Invero, si legge a pag. 117 dell'ordinanza: 
    "La  gravita'  e   l'attualita'   dell'emergenza   sanitaria   ed
ambientale rendono effettivamente necessario un tempestivo intervento
in ordine alla messa a  norma  dello  stabilimento,  funzionale  alla
neutralizzazione delle fonti  inquinanti  e,  conseguentemente,  alla
eliminazione delle emissioni illecite. 
    Va dunque condiviso pienamente quanto osservato dal G.I.P., nella
parte motiva del provvedimento di  sequestro  (cfr.  pagg.  293-294),
allorquando  viene  specificato  come  la  situazione  di   grave   e
attualissima emergenza ambientale  e  sanitaria  imponga  l'immediata
adozione del sequestro preventivo - senza facolta' d'uso - delle aree
e degli impianti sopra indicati, funzionale alla  interruzione  delle
attivita' inquinanti, e che «solo la compiuta realizzazione di  tutte
"le  misure  tecniche  necessarie  per  eliminare  le  situazioni  di
pericolo" individuate  dai  periti  chimici  (v.  pagg.  545/554  del
relativo elaborato peritale, nonche' sopra, sub  paragrafo  5.5),  in
uno alla attuazione di un sistema di monitoraggio in  continuo  delle
emissioni maggiormente inquinanti (quali quelle contenenti diossine e
PCB), potrebbe  legittimare  l'autorizzazione  -  previa  attenta  ed
approfondita valutazione, da parte  di  tecnici  nominati  dall'A.G.,
dell'efficacia, sotto il profilo della prevenzione ambientale,  delle
misure eventualmente adottate - ad una ripresa della operativita' dei
predetti impianti». 
    E a pag. 122: 
    "Deve, in definitiva, confermarsi il  sequestro,  senza  facolta'
d'uso, delle aree e degli impianti sopra indicati;  il  provvedimento
del G.I.P. va invece modificato quanto alla nomina  dei  custodi  ...
...,  nonche'  nella  parte  in  cui  prevede  che  i  custodi  ingg.
Valenzano,  Laterza  e  Lofrumento  "avvieranno   immediatamente   le
procedure tecniche e di sicurezza  per  il  blocco  delle  specifiche
lavorazioni e lo spegnimento degli impianti", nei  termini  seguenti:
"Dispone che i custodi garantiscano la sicurezza degli impianti e  li
utilizzino  in  funzione  della  realizzazione  di  tutte  le  misure
tecniche necessarie per eliminare le situazioni di pericolo  e  della
attuazione di un sistema di monitoraggio in continuo delle  emissioni
inquinanti". 
    Si chiariva, in particolare, come la ripresa  della  operativita'
degli impianti fosse subordinata alla improcrastinabile  eliminazione
delle  emissioni  illecite:  "...  i  tecnici  nominati  ...  possano
compiutamente valutare  e  -  nel  caso  -  adottare,  tra  tutte  le
possibili   scelte   operative,   quelle   concretamente   idonee   a
salvaguardare  l'integrita'  e  la  sicurezza  degli  impianti  e   a
consentire, in ipotesi, la ripresa della operativita' dei predetti in
condizione di piena compatibilita' ambientale una volta eliminate del
tutto quelle emissioni illecite, nocive e dannose per la  salute  dei
lavoratori e della  popolazione  e,  in  ogni  caso,  per  l'ambiente
circostante gli interventi volti alla  eliminazione  delle  emissioni
illecite si rendono necessari  ed  improcrastinablli  oltre  che  per
arrestare gli effetti e le conseguenze illecite dei  reati  posti  in
essere anche in vista della eventuale ripresa della produzione  dello
stabilimento, la cui attivita', ove il gestore non provveda ai dovuti
adeguamenti sarebbe irrimediabilmente compromessa" (pag. 120). 
    Consequenziale era il chiaro dispositivo del  Tribunale  ove  era
scritto: "Dispone che  i  custodi  garantiscano  la  sicurezza  degli
impianti e li utilizzino in funzione della realizzazione di tutte  le
misure tecniche necessarie per eliminare le situazioni di pericolo  e
della attuazione di un sistema  di  monitoraggio  in  continuo  delle
emissioni inquinanti". 
    Sulla base di tale inequivoco dettato del Tribunale del  riesame,
il P.M. impartiva precise  direttive  ai  custodi  con  provvedimento
dell'1° settembre 2012 che, peraltro,  ribadiva  altro  e  precedente
provvedimento. In esso i custodi erano invitati a:  "l)  a  procedere
immediatamente alla adozione  delle  misure  necessarie  alla  pronta
eliminazione delle emissioni nocive ancora in atto;  2)  a  procedere
alla  individuazione  delle  misure   necessarie   agli   adeguamenti
tecnico-ambientali idonei a consentire la  ripresa  dell'operativita'
degli impianti in totale sicurezza per i lavoratori e la  popolazione
esposti alle criticita' sanitarie  riscontrate,  nonche'  ad  attuare
tutte le ulteriori misure indicate nel  provvedimento  del  Tribunale
del riesame del 7/20 agosto  2012  da  intendersi  qui  integralmente
richiamate; 3) a  procedere  ad  elencare  analiticamente  tutti  gli
interventi necessari di  cui  al  punto  2)  con  specificazione  dei
relativi costi e tempi di esecuzione. 
    Altro provvedimento di analogo contenuto era impartito ai custodi
il 5 ottobre 2012 ove era anche disposto un temine di giorni 5  entro
il quale l'ILVA, a mezzo del custode  -  amministratore  doti.  Bruno
Ferrante, doveva adibire le maestranze occorrenti  destinandole  alle
operazioni tecniche necessarie  a  far  cessare  ulteriori  emissioni
inquinanti derivanti dagli impianti, reparti ed aree sotto sequestro. 
    Tutto cio' premesso, occorre precisare che  i  due  provvedimenti
sopra indicati erano emessi sia tenendo conto di quanto statuito  dal
Tribunale del riesame che escludeva qualsiasi facolta' d'uso e quindi
di produzione finalizzata alla commercializzazione dell'acciaio,  sia
delle relazioni dei custodi che  indicavano  in  maniera  dettagliate
tutti gli  interventi  immediati  da  effettuare  sugli  impianti  in
sequestro per bloccare le emissioni nocive. 
    ... allo  stato,  dopo  quasi  quattro  mesi  dall'emissione  del
provvedimento di sequestro preventivo del GIP e dopo i  provvedimenti
del Tribunale di Taranto di cui sopra e le direttive del P.M. di  cui
si e' detto, non risulta che l'ILVA  abbia  deciso  di  dare  pratica
esecuzione al suddetto provvedimento al di la' delle numerose "carte"
trasmesse al P.M. che nulla di concreto per l'eliminazione  immediata
delle emissioni nocive statuiscono. 
    La relazione dei custodi del 24 ottobre  2012,  in  atti,  appare
illuminante. 
    In essa e' scritto chiaramente come "in relazione allo  stato  di
attuazione degli interventi disposti  dai  custodi  ad  ILVA  spa  si
conferma che gli stessi: non sono stati tempestivamente  recepiti  da
parte   dell'Azienda,   malgrado   la   necessita'   di    cessazione
dell'attivita'  criminosa  in  corso  e  delle  emissioni  inquinanti
derivanti  dalla  conduzione  degli  impianti  oggetto  di  sequestro
preventivo; non risultano  avviati  conformemente,  nei  modi  e  nei
tempi, alle disposizioni dei custodi e preventivamente condivise  con
gli  stessi;  non  risultano  consegnate  a  ditte  specializzate  in
relazione alle diverse attivita' (si  e'  ancora  in  fase  di  studi
preliminari  di  fattibilita');  non  risultano  dotati  di  adeguata
copertura finanziaria da parte del C.d.A di ILVA S.p.a.". 
    Nello stesso senso la articolata e corposa  relazione  depositata
dai custodi ed amministratori delle aree ed  impianti  in  sequestro,
depositata con i relativi allegati in data  19  novembre  2012,  alla
quale si rinvia integralmente. 
    Va fatta menzione, inoltre,  della  nota  depositata  in  data  9
novembre 2012 con la  quale  il  custode-amministratore  dott.  Mario
Tagarelli ha informato la  Procura  della  Repubblica  presso  questo
Tribunale del fatto che alla sua richiesta, avanzata  il  6  novembre
2012, di poter ricevere dall'ILVA informazioni in ordine: 
        a) ai contratti  di  vendita  a  terzi  dei  prodotti  e  dei
semilavorati, riferiti agli ultimi due esercizi nonche' all'esercizio
in corso; 
        b) ai report riferiti: 
ai prodotti finiti e semilavorati  venduti/spediti  nel  corso  degli
ultimi due esercizi; 
ai prodotti finiti e semilavorati venduti/spediti  nell'esercizio  in
corso, sino ad oggi; 
ai prodotti finiti e semilavorati inclusi nel budget previsionale; 
        c) alle capacita' di  stoccaggio  di  prodotti  finiti  e  di
semilavorati all'interno dello stabilimento di Taranto, con opportuna
specificazione dei siti ove sono materialmente allocati; 
        d) all'attuale portafoglio degli ordinativi  pervenuti  dalla
clientela, nonche'  al  dato  storico  degli  stessi  ordinativi  con
riferimento agli ultimi due esercizi; 
        e) all'eventuale destinazione interna di merce, prodotti  e/o
semilavorati, avendo riguardo alla composizione del  gruppo  ed  alla
sua dislocazione territoriale. 
    In data 9 novembre  2012  il  Responsabile  Area  logistica  ing.
Antonio Colucci ed  il  Responsabile  dell'Ufficio  legale  dell'ILVA
avvocato Francesco Brescia precisavano "di non  essere  in  grado  di
esibire quanto loro richiesto per espressa  volonta'  della  societa'
che, con separato atto, avrebbe comunicato  le  motivazioni  di  tale
rifiuto". 
    Atteggiamento,  questo,  che  tradisce  la   pervicace   volonta'
dell'ILVA  di  continuare  imperterrita  nell'attivita'   produttiva,
nonostante i provvedimenti dell'A.G. 
    Orbene, la situazione attuale appare davvero paradossale. 
    Da un lato abbiamo un decreto di sequestro preventivo (su cui  e'
intervenuto il giudicato  cautelare)  volto  a  bloccare  l'attivita'
inquinante dell'ILVA  che  esclude  radicalmente  qualsiasi  facolta'
d'uso mirata all'attivita' produttiva, imponendo l'uso degli impianti
solo a finalita' di risanamento, il tutto in  presenza  di  relazioni
tecniche dei custodi che dicono chiaramente  come  occorra  procedere
allo spegnimento e  rifacimento  di  diverse  parti  del  siderurgico
altamente  inquinanti  quale  unica  modalita'  possibile  di  blocco
immediato delle emissioni nocive e di risanamento (vedi relazioni  in
atti); dall'altro abbiamo un'azienda (ILVA) che appare  assolutamente
riottosa ad osservare  il  provvedimento  di  sequestro  e  quindi  a
bloccare le  emissioni  inquinanti,  continuando  imperterrita  nella
criminosa  produzione  dell'acciaio,   nella   vendita   del   frutto
dell'attivita' criminosa, ed assicurandosi lauti profitti non curante
delle disposizioni dell'autorita'  giudiziaria  e  in  violazione  di
tutti i provvedimenti giurisdizionali sopra indicati». 
    Tali considerazioni sono pienamente condivise anche  dall'odierno
Collegio. 
    Erra, infatti, la difesa nel dedurre che "ne' il dispositivo, ne'
le motivazioni" dell'ordinanza del Tribunale  del  riesame  del  7/20
agosto 2012 "vietavano o vietano la produzione",  ritenendo  in  ogni
caso non illecito l'esercizio dell'attivita' produttiva nelle aree  a
caldo dello stabilimento ionico, perche'  non  espressamente  vietata
dall'A.G. o dai custodi, essendosi l'ILVA limitata  a  mantenere  gli
impianti "in marcia ridotta, entro i limiti dell'obiettivo di  quella
preservazione degli stessi, disposta dal Tribunale del riesame". 
    L'ordinanza del Tribunale del riesame sopra richiamata, aveva, in
realta', modificato il provvedimento di sequestro del Giudice per  le
indagini preliminari, oltre che in  riferimento  alla  individuazione
del dott. Ferrante quale custode-amministratore, in sostituzione  del
dott. Tagarelli, esclusivamente nella parte  in  cui  lo  stesso  GIP
disponeva   che   i    custodi-amministratori    dovessero    avviare
"immediatamente le procedure tecniche e di sicurezza  per  il  blocco
delle  specifiche  lavorazioni  e  lo  spegnimento  degli   impianti"
(indicando, cioe', il blocco e lo spegnimento come  uniche  soluzioni
per evitare l'aggravamento e la protrazione dell'attivita'  illecita,
da  adottarsi  senza  indugio),  avendo  ritenuto,  invece,  che   le
modalita' esecutive del  sequestro,  in  concreto,  dovessero  essere
individuate "dagli stessi custodi-amministratori,  sulla  base  delle
migliori tecnologie disponibili, ed attuate sotto la supervisione del
P.M. procedente, quale  organo  dell'esecuzione,  all'esclusivo  fine
della eliminazione della situazione di pericolo; cio'  in  vista  del
raggiungimento del precipuo obiettivo, normativamente  previsto,  del
sequestro  preventivo,  ovvero  quello  di  evitare  che  la   libera
disponibilita' del bene sottoposto  a  sequestro  possa  aggravare  e
protrarre le conseguenze dei reati il cui  fumus  nel  caso  concreto
venga ravvisato". 
    Attesa la particolare natura degli immobili sequestrati  (aree  a
caldo di uno stabilimento siderurgico a ciclo integrale, ove cioe' il
prodotto finito, l'acciaio, si realizza partendo dalle materie  prime
e generando un prodotto intermedio, la ghisa) e preso  atto  che  gli
impianti,  anche  per  ragioni  di  sicurezza  ed   incolumita'   dei
lavoratori, non potevano essere fermati immediatamente (cfr.  verbale
di sequestro del 30 luglio 2012 contenuto  nel  faldone  n.  17),  il
medesimo Tribunale aveva precisato, a riguardo,  che  non  fosse  suo
compito "stabilire se e come occorra intervenire nel ciclo produttivo
(con i consequenziali  costi  d'investimento)  o,  semplicemente,  se
occorra fermare gli impianti, trattandosi  di  decisione  che  dovra'
necessariamente essere assunta sulla base delle risoluzioni  tecniche
dei  custodi-amministratori,  vagliate  dall'A.G.:  per   questo   lo
spegnimento degli impianti rappresenta, allo stato,  solo  una  delle
scelte tecniche possibili"; tale  determinazione  era  stata  assunta
tenuto conto che i periti  nominati  dall'autorita'  giudiziaria,  in
sede di incidente probatorio, non avevano escluso la possibilita' che
l'impianto  siderurgico  potesse  lecitamente  funzionare,   attuando
determinate misure tecniche finalizzate  alla  eliminazione  di  ogni
situazione di pericolo per i  lavoratori  e  per  la  cittadinanza  -
ritenendo dunque possibile individuare soluzioni  che,  nel  giungere
alla cessazione delle  emissioni  inquinanti,  consentissero  di  non
pregiudicare oltremodo gli ulteriori interessi in gioco (quali quello
della  tutela  dell'impresa  produttiva   e   quello   della   tutela
dell'occupazione di mano  d'opera)  -  essendo  comunque  emerso  che
l'immediato  spegnimento  degli  impianti  non  solo  avrebbe  potuto
irrimediabilmente  ledere  la  loro  integrita',  ma  avrebbe   avuto
immediate ripercussioni anche sull'intero contesto aziendale. 
    Come e'  noto,  pero',  il  sequestro  preventivo  trova  la  sua
giustificazione nel "finalismo" cautelare di impedire  che  una  cosa
pertinente al reato possa essere utilizzata per estendere  nel  tempo
od in intensita' le  conseguenze  del  crimine  o  per  agevolare  il
compimento di altri reati. Il provvedimento inibitorio  e'  inteso  a
stabilire un vincolo di indisponibilita' in riferimento ad  una  cosa
mobile  od  immobile  il  cui  uso  e'   ricompreso   necessariamente
nell'agire vietato dalla legge penale.  Ne  discende  che  la  misura
cautelare in questione va disposta nelle situazioni  in  cui  il  non
assoggettamento  a  vincolo  della  cosa  pertinente  al  reato  puo'
condurre, in  pendenza  dell'accertamento  del  reato,  non  solo  al
protrarsi del comportamento illecito ovvero alla  reiterazione  della
condotta  criminosa  ma  anche  alla   realizzazione   di   ulteriori
pregiudizi quali nuovi effetti  offensivi  del  bene  protetto  (cfr.
Cass. sez. U, Sentenza n. 12878 del 2003). 
    Appare  allora  evidente  che  qualunque  utilizzazione  a  scopo
produttivo degli impianti in sequestro - come sostenuto dalla  difesa
in base a un'interpretazione  non  condivisibile  dell'ordinanza  del
7/20 agosto 2012 - avrebbe neutralizzato le  finalita'  della  misura
cautelare   in   concreto   ravvisate   (inibire    le    conseguenze
antigiuridiche,  ulteriori  rispetto   ai   reati   gia'   consumati,
discendenti da un uso degli impianti foriero di emissioni  inquinanti
e dannose  per  la  salute  dei  lavoratori  e  della  cittadinanza),
contraddicendole  e  vanificandole;  avrebbe,  cioe',   completamente
sacrificato  gli  interessi  alla  cui  tutela   il   sequestro   era
finalizzato, consentendo l'ulteriore lesione  degli  stessi  mediante
l'autorizzazione  a  proseguire  nella  medesima  attivita'  ritenuta
illecita. 
    Viceversa affidare l'"uso" degli impianti non all'azienda  ma  ai
custodi era funzionale alla necessita' di "valutare e -  nel  caso  -
adottare,  tra  tutte   le   possibili   scelte   operative,   quelle
concretamente idonee a  salvaguardare  l'integrita'  e  la  sicurezza
degli  impianti  ed  a  consentire,  in  ipotesi,  la  ripresa  della
operativita' dei predetti,  in  condizioni  di  piena  compatibilita'
ambientale", atteso che in assenza di tale specificazione -  e  cioe'
che i custodi  potessero  avere  una  limitata  disponibilita'  degli
immobili in sequestro, un potere di prospettazione  e  di  intervento
non limitato alla mera conservazione ma  finalizzato,  se  possibile,
all'eventuale risanamento - la sorte delle  aree  dello  stabilimento
sottoposte a misura cautelare non poteva che essere quello della loro
immediata  chiusura  (una  volta  superate  le  iniziali  difficolta'
tecniche):  il  Tribunale  del  riesame,  in   sintesi,   avendo   la
possibilita' di regolare le  modalita'  concrete  di  attuazione  del
sequestro, si era limitato a porre condizioni  a  garanzia  non  solo
della  cessazione  delle  attivita'   inquinanti   e   del   disastro
ambientale, ma anche della eventuale restituzione del bene. 
    Ebbene, nonostante dovesse essere  questa  l'utilizzazione  degli
impianti consentita dal Tribunale del riesame,  disponibilita'  cioe'
dei medesimi da parte dei custodi  (qualificati  proprio  per  questo
anche "amministratori", conformemente  al  dettato  di  cui  all'art.
104-bis disp. att. c.p.p.), sotto la supervisione del PM  procedente,
prodromica  e  strumentale  alla  ripresa   (futura)   dell'attivita'
produttiva, ILVA S.p.A., pur esautorata dall'utilizzo degli  impianti
sequestrati, alla luce di quanto appena illustrato, ha  continuato  a
produrre, come rilevato dal GIP nel provvedimento di sequestro del 22
novembre  2012  e  come  ammesso  dalla  stessa   parte   appellante,
evidentemente  nelle  medesime  modalita'  (illecite)   che   avevano
provocato emissioni inquinanti pericolose  per  la  salute  pubblica,
essendo dato certo, e non contestato, che fino al momento attuale non
sono stati eseguiti ne' avviati interventi strutturali finalizzati  e
idonei a incidere sul pericolo per l'incolumita'  pubblica  derivante
dall'attivita' produttiva degli impianti sequestrati. 
    A nulla rileva che non sia mai stato adottato un provvedimento di
spegnimento, in ragione del fatto che, come  si  e'  detto,  non  era
questo lo scopo immediato e (inevitabile) del sequestro. 
    E' invece erroneo affermare che i custodi non  hanno  rivolto  ad
ILVA "precisazioni concrete e  dirette  ...  circa  le  modalita'  di
conduzione degli impianti", atteso  che  sin  dalle  disposizioni  di
servizio impartite dopo l'incontro tecnico tenutosi il  1°  settembre
2012 (cfr. doc. n. 1 della produzione effettuato dal  PM  all'udienza
dell'8 gennaio 2013),  i  custodi  avevano  indicato  gli  interventi
immediati per accertare e ridurre gli  effetti  inquinanti  derivanti
dalla conduzione degli impianti; e nelle successive relazioni del  17
e del 24 ottobre 2012 i medesimi custodi  informavano  i  PP.MM.  che
detti interventi non erano stati recepiti ne' avviati dall'azienda  o
comunque dotati di copertura finanziaria (come sottolineato  dal  Gip
procedente). 
    Appare infine meramente assertivo l'assunto  secondo  cui  l'ILVA
non ha condotto gli impianti "secondo regimi di  marcia  superiori  a
quello sufficiente al mantenimento in vita degli stessi", circostanza
che, oltre a non essere  supportata  da  alcun  elemento  probatorio,
appare contraddetta dall'ingente quantitativo della merce posta sotto
sequestro, pari  a  1.581.211  tonnellate  (cfr.  annotazione  di  PG
esplicativa  del  verbale  di  sequestro  preventivo  redatto  il  26
novembre 2012 dalla Guardia di finanza di Taranto, presente  in  atti
nel faldone n. 22). 
    Ribadito, dunque, che l'acciaio, illecitamente realizzato da ILVA
S.p.A., costituisce il "prodotto" dei reati sopra contestati e quindi
cosa pertinente agli stessi e che lo stesso, a  mente  dell'art.  240
comma 1 c.p., potra' essere confiscato in caso  di  condanna,  appare
pienamente legittimo il sequestro preventivo  disposto  dal  Gip,  ai
sensi dell'art. 321, comma 2 c.p.p. (che prevede la  possibilita'  di
disporre tale misura cautelare reale sulle cose di cui e'  consentita
la confisca). 
    La difesa ha contestato, sul punto, un difetto di motivazione  da
parte del  primo  Giudice,  il  quale  avrebbe  dovuto  adeguatamente
motivare sulle ragioni per le quali ha esercitato il potere cautelare
(proprio in virtu' del fatto che, anche in caso di condanna,  non  va
ordinata automaticamente la confisca del prodotto del reato). 
    Sennonche', secondo condivisibile orientamento giurisprudenziale,
per l'applicabilita' del sequestro preventivo previsto dall'art. 321,
comma secondo c.p.p. non occorre necessariamente la sussistenza delle
condizioni previste dal  primo  comma  per  il  sequestro  preventivo
tipico, ma e' sufficiente il presupposto della confiscabilita'.  Cio'
che si richiede, ma solo nel caso della confisca facoltativa, e'  che
il giudice dia ragione del potere discrezionale di cui si e' avvalso,
il  che  puo'  avvenire  anche  mediante  semplice  riferimento  alla
finalita'  di  evitare  la  protrazione  degli  effetti  del   reato:
finalita' nella quale deve ritenersi  ricompresa  l'esigenza  di  non
consentire  che  la  cosa  confiscabile  sia  modificata,   dispersa,
deteriorata, utilizzata o alienata (cfr. Cass. sez.  6,  Sentenza  n.
1022 del 17 marzo 1995). 
    Nel caso di specie tale riferimento vi e' stato,  avendo  il  Gip
esaurientemente spiegato che «... il prodotto finito o  semi-lavorato
ottenuto a seguito delle attivita' di  lavorazione  e  trasformazione
delle materie prime svolte presso  lo  stabilimento  ILVA  S.p.a.  di
Taranto ed attualmente staccato nei magazzini (da intendersi in senso
ampio come aree e/o locali deputati alla  collocazione  del  prodotto
finito, anche in attesa di spedizione e/o  consegna  al  committente)
possa ed anzi, debba, essere considerato prodotto del  reato  proprio
perche' cosa costituente "... il  filato  che  il  colpevole  ottiene
direttamente dalla  sua  attivita'  illecita"  ovvero  "cosa  creata,
trasformata o acquisita con la condotta criminosa."», imponendosi  la
necessita'  del  sequestro  in  ragione  del  fatto  che  «l'idea   e
l'attrattiva del reato stanno invero spiegando i loro  effetti  anche
nell'attuale momento, ispirando - con la prospettiva di considerevoli
profitti rivenienti dalla vendita del prodotto finito  -  le  attuali
condotte  dei  vertici  aziendali,   manifestatisi   fino   ad   oggi
recalcitranti nell'attuazione  delle  pratiche  necessarie  per  dare
concreta esecuzione al decreto di sequestro sopra  richiamato  ed  ai
successivi provvedimenti adottati in sede di riesame e di esecuzione»
e, finanche, aggiungendo che «tale ultima considerazione evoca, a ben
guardare, anche le finalita' del sequestro  preventivo  previsto  dal
primo comma dell'art. 321  c.p.p.  essendo  indubbio  che  la  libera
disponibilita' del prodotto finito o semi-lavorato  (da  considerarsi
per le ragioni innanzi espresse quale cosa pertinente al reato) e  la
conseguente  possibilita'  della  sua  remunerata  collocazione   sul
mercato,  stia  incentivando  gli  organi  aziendali  a  perseverare,
nell'allettante ottica di ulteriori  profitti,  immediati  e  futuri,
nella produzione industriale con modalita' contrarie alla legge (come
sinora avvenuto)  e  comunque  pericolose  per  la  salute  pubblica,
perpetuando di  fatto  quella  "gravissima  situazione  di  emergenza
ambientale  e  sanitaria  accertata   nel   corso   delle   indagini"
diffusamente rappresentata nel richiamato decreto del 25 luglio u.s.»
(ipotizzando,  quindi,  che  la  libera  disponibilita'  dell'acciaio
prodotto  possa  far  determinare   il   pericolo   di   reiterazione
dell'attivita' criminosa). 
    Le  sopraesposte  considerazioni  conducono   a   confermare   la
sussistenza dei  presupposti  applicativi  del  sequestro  preventivo
disposto il 22 novembre 2012 sul prodotto finito e/o semilavorato. 
    L'accoglimento dell'appello, dunque, puo' derivare esclusivamente
dall'applicazione   dell'art.   3,   decreto-legge   207/2012,   come
modificato dalla legge di  conversione  n.  231/2012,  in  forza  del
quale, come si e' detto  in  premessa,  a  decorrere  dalla  data  di
entrata in vigore del predetto decreto-legge, la societa' ILVA S.p.A.
di Taranto e' immessa nel possesso dei beni dell'impresa  ed  e'  "in
ogni caso autorizzata  alla  prosecuzione  dell'attivita'  produttiva
nello  stabilimento  e  alla  commercializzazione  dei  prodotti  ivi
compresi quelli realizzati antecedentemente alla data di  entrata  in
vigore" del decreto-legge 207 cit. 
    Una  lettura  costituzionalmente   orientata   della   precedente
versione dell'art. 3 contenuta nel decreto-legge 207/2012 -  che  non
conteneva alcun riferimento al prodotto realizzato  prima  della  sua
entrata in vigore e consentiva, dopo la immissione di ILVA S.p.A. nel
possesso dei beni aziendali la "conseguente" commercializzazione  dei
prodotti - ed una interpretazione coerente con  i  principi  generali
dell'ordinamento, non espressamente derogati  dalla  normativa  sopra
citata, con particolare  riferimento  al  divieto  di  retroattivita'
della legge, avevano infatti indotto il GIP a rigettare l'istanza  di
rimozione dei sigilli dei beni oggetto del sequestro  preventivo  del
22 novembre 2012. 
    Le modifiche al comma terzo dell'art. 3 introdotte nella legge di
conversione autorizzano, invece, la commercializzazione del  prodotto
finito, realizzato anche anteriormente alla vigenza del decreto-legge
207/2012, ossia quello in giudiziale sequestro, imponendo di fatto la
revoca della vincolo cautelare reale, per la  ovvia  incompatibilita'
tra il mantenimento del sequestro e la  immissione  in  commercio  di
beni mobili (cfr. Cass. Civ., sez. 2, Sentenza n. 2548 del 24  aprile
1982). 
    Il provvedimento di sequestro preventivo e', infatti, un atto  di
coercizione reale, destinato ad assoggettare determinate cose  ad  un
vincolo di indisponibilita', mediante Io  spossessamento  di  chi  e'
legittimato a farle circolare con effetti giuridici. 
    Si tratta, quindi, di una misura di coercizione per  esigenze  di
prevenzione, peraltro connessa e  strumentale  allo  svolgimento  del
procedimento penale ed all'accertamento del reato per cui si procede,
nel senso che e' suo scopo quello di evitare che il  trascorrere  del
tempo  possa  pregiudicare  irrimediabilmente  l'effettivita'   della
giurisdizione espressa con la sentenza irrevocabile di condanna (cfr.
Cass., sez. U, Sentenza n. 12878 del 2003). 
    La sottrazione, la soppressione, la distruzione,  la  dispersione
e/o il deterioramento della cosa sottoposta a sequestro  penale  sono
anche condotte penalmente rilevanti (cfr. art. 334 c.p.): pertanto la
vendita  della   cosa   in   sequestro,   cui   segua   la   consegna
all'acquirente, integra un reato (cfr. Cass. sez. 6, Sentenza n. 9732
del 19 maggio 1982). 
    Se persino il semplice utilizzo del bene  oggetto  di'  sequestro
preventivo implica di per se' a prescindere dalla impossibilita'  del
possessore di alienare  il  bene  stesso  -  il  protrarsi  ed  anche
l'eventuale aggravamento delle conseguenze del  reato,  ponendosi  in
insanabile contraddizione con le finalita' della misura cautelare  in
questione (per cui sebbene tale facolta' sia stata talvolta  concessa
dai giudici di merito  -  allo  scopo  di  tutelare  interessi,  pure
costituzionalmente rilevanti, eventualmente lesi  dalla  applicazione
della misura, si pensi ad esempio alla  concessione  dell'utilizzo  a
scopo abitativo di  immobili  abusivi  posti  sotto  sequestro  -  la
suprema Corte ha, con indirizzo costante, annullato il provvedimento:
efr. Cass.  sez.  3,  Sentenza  n.  825  del  4  dicembre  2008),  la
previsione ex  lege  della  commercializzazione  di  beni  mobili  in
giudiziale sequestro svuota di qualunque contenuto  il  provvedimento
cautelare,  imponendo  di  fatto  all'autorita'  giudiziaria   -   e,
pertanto, a questo Tribunale  dell'appello,  all'esito  del  presente
giudizio - la revoca del sequestro. 
    Pur mantenendo formalmente il vincolo e',  infatti,  indubitabile
che, all'esito del processo, alcun diritto potra'  essere  esercitato
dallo  Stato  sul  bene  sequestrato  e  commercializzato,  sia   per
l'inevitabile contrasto tra provvedimento  ablatorio  di  confisca  e
diritti legittimamente acquisiti dal terzo acquirente  (ove,  in  via
del tutto  ipotetica,  sia  possibile  rintracciare  la  destinazione
finale della res), sia perche' la natura stessa del bene in questione
(acciaio destinato alla ulteriore produzione di beni  diversi)  rende
effettivamente impossibile la successiva  individuazione  della  cosa
originariamente sequestrata, per la  mancanza  di  pubblicita'  degli
atti di trasferimento  dei  beni  mobili  non  registrati  e  per  il
processo di trasformazione a cui essa e' destinata. 
    Tuttavia, ad avviso  del  Collegio,  l'applicazione  della  norma
prevista dall'art. 3, comma 3, legge 231/2012 - che impone,  come  si
e' detto,  il  dissequestro  del  prodotto  finito  e/o  semilavorato
attualmente sottoposta a sequestro preventivo in forza di (legittimo)
provvedimento del  Gip  emesso  il  22  novembre  2012  -  merita  un
preventivo vaglio da parte della Corte  costituzionale,  essendo  non
manifestamente  infondate  alcune  questioni   di   costituzionalita'
sollevate a  riguardo  dal  PM  procedente  o,  comunque,  rilevabili
d'ufficio. 
    Solo la questione di legittimita' costituzionale  della  predetta
norma, infatti, per le considerazioni sopra esposte, appare rilevante
nel presente giudizio  (nel  senso  che  l'appello  non  puo'  essere
definito indipendentemente dalla risoluzione di essa), atteso che  le
altre norme su cui si sono appuntati  i  rilievi  della  Procura,  in
particolare quelle contenute negli articoli 1 e 2  del  decreto-legge
207/2012 e nella  parte  iniziale  del  medesimo  articolo  3,  hanno
esclusiva  rilevanza  con  riferimento  alla  vicenda   inerente   il
sequestro degli impianti dello stabilimento ILVA di  Taranto,  avendo
imposto  la  immissione  in  possesso   della   societa'   nei   beni
dell'impresa (anche se sottoposti a  misura  cautelare  reale)  e  la
prosecuzione  della  attivita'  produttiva,  ma  non  riguardano   il
dissequestro   del   prodotto   finito,   oggetto   della    presente
impugnazione. (1) 
Sulla non manifesta infondatezza della questione. 
    Orbene l'art.  3,  comma  3,  legge  231/2012  presenta  evidenti
profili di contrasto innanzitutto con l'art.  3  della  Costituzione,
ossia con il principio  di  uguaglianza,  dal  momento  che  identici
fatti-reato (quali, in ipotesi,  quelli  contestati  nel  decreto  di
sequestro del 22 novembre  2012),  se  commessi  da  alcune  imprese,
possono determinare il sequestro del prodotto del reato medesimo e la
conseguente incommerciabilita' dei beni, se commessi, invece, da ILVA
S.p.A. non comportano analogo effetto, determinandosi in questo modo,
ad avviso dell'odierno  Collegio,  una  inammissibile  disparita'  di
trattamento. La legge si  presenta  pertanto  come  "legge  del  caso
singolo". 
    A riguardo la Corte costituzionale ha, da tempo, statuito che  il
principio di eguaglianza e' violato anche quando la legge,  senza  un
ragionevole motivo, faccia un trattamento diverso a cittadini che  si
trovino in situazione eguale (cfr. Corte cost. sent. n. 15 del 1960). 
    Nella sentenza n. 1009 del 1988, quasi si trattasse di  enunciare
una regola generale,  la  Corte  costituzionale  esprime  chiaramente
questo concetto: "il principio di cui all'art. 3 Cost. e' violato non
solo  quando  i  trattamenti  messi  a  confronto  sono   formalmente
contraddittori in ragione dell'identita' delle fattispecie, ma  anche
quando la differenza di trattamento e' irrazionale secondo le  regole
del discorso  pratico,  in  quanto  le  rispettive  fattispecie,  pur
diverse, sono ragionevolmente analoghe". 
    Ebbene, nel caso di specie l'impugnata norma  contrasterebbe  con
il principio di eguaglianza, in quanto  sottrae  alla  situazione  di
illegale commerciabilita' del prodotto, sequestrato, di un reato,  di
norma punito ai sensi dell'art. 334 c.p., esclusivamente ILVA S.p.A.,
mentre lascia assoggettata al  divieto  (ed  alle  relative  sanzioni
penali)  tutte  le  altre  imprese  che,  nelle  stesse   condizioni,
esercitino un'attivita' economica e verso le quali sia stato disposto
il sequestro preventivo della merce. 
    Ove, come  si  e'  detto,  l'art.  3,  comma  3,  legge  231/2012
introduca una ipotesi di revoca del sequestro preventivo, ulteriore e
diversa da  quella  comunemente  prevista  dall'art.  321,  comma  3,
c.p.p., secondo  cui  il  sequestro  va  revocato  "quando  risultano
mancanti,  anche   per   fatti   sopravvenuti,   le   condizioni   di
applicabilita'" del  vincolo,  vi  sarebbe  ulteriore  disparita'  di
trattamento tra tale evenienza, verificabile solo per ILVA  S.p.A.  e
non tutte le altre imprese per le quali il dissequestro  puo'  essere
disposto solo alle condizioni previste dall'art. 321, comma 3, c.p.p. 
    La previsione di un trattamento  penale  piu'  favorevole  per  i
presunti responsabili di  illeciti  che  contribuiscono  a  creare  o
mantenere  una  situazione   di   emergenza   ambientale   (incidendo
gravemente su beni di rilevanza costituzionale, quali l'ambiente e la
salute dei cittadini, esposti a grave pericolo proprio per effetto di
quei comportamenti) appare manifestamente irragionevole  e  si  pone,
altresi', in contrasto con il criterio di scelta comunemente adottato
dal  legislatore,  nella  regolamentazione   penale   della   materia
ambientale, allorquando ha predisposto una tutela rafforzata al  fine
di garantire le popolazioni coinvolte [si pensi all'art. 6, lett.  a)
e d), del decreto-legge 6 novembre  2008,  n.  172,  convertito,  con
modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge 30 dicembre 2008, n.
210, nella parte in cui, limitatamente alle aree geografiche  in  cui
vige lo stato di emergenza nel settore dello smaltimento dei rifiuti,
configura  come  delitto  condotte  che,  nel   restante   territorio
nazionale, non sono penalmente rilevanti (lett. a) o  sono  punite  a
titolo di contravvenzione (lett. d)]. 
    Il principio di uguaglianza appare, altresi',  violato  sotto  il
profilo  della  "ragionevolezza-razionalita'"  della  disparita'   di
trattamento (aderendo a quell'orientamento dottrinario secondo cui la
ragionevolezza, in questa  differente  prospettiva,  sembra  esigere,
piu'   nettamente,   "razionalita'"   nelle    scelte    legislative,
confondendosi, piu' propriamente, con la piu'  generale  esigenza  di
coerenza  dell'ordinamento  giuridico:  cfr.  Corte  cost.  sent.  n.
204/1982, ove si  dice  che  il  valore  essenziale  dell'ordinamento
giuridico di un paese civile sta nella coerenza tra le parti  di  cui
si compone, "valore nel dispregio del quale  le  norme  degradano  al
livello di gregge senza pastore"). 
    Se l'art. 321 c.p.p. prevede la sequestrabilita' delle  cose  che
costituiscono il prodotto del reato e che sono confiscabili, ai sensi
del primo comma dell'art. 240 c.p., all'esito del processo (ovvero di
quelle, pertinenti al reato, che possono  aggravare  o  protrarre  le
conseguenze di esso reato ovvero agevolare la commissione di altri) e
se  l'effetto  "naturale"  del  sequestro  e'   la   indisponibilita'
giuridica della res, appare davvero difficile comprendere perche' sia
stato consentito ex lege a ILVA S.p.A. di commercializzare i prodotti
in sequestro, non apparendo tale facolta' funzionale neanche a quella
"assoluta  necessita'  di  salvaguardia  dell'occupazione   e   della
produzione"  che,  a  norma  dell'art.  1,   legge   231/2012,   puo'
determinare il Ministero dell'Ambiente  "in  sede  di  riesame  della
autorizzazione  integrata  ambientale"  (nell'ambito,  cioe',  di  un
procedimento    amministrativo    istituzionalmente    deputato    al
bilanciamento di opposti interessi, ravvisabili nel caso de quo nella
tutela dell'ambiente e della salute) ad autorizzare  la  prosecuzione
dell'attivita' produttiva degli stabilimenti "di interesse strategico
nazionale", anche in caso di sequestro sui beni dell'impresa titolare
dello stabilimento  (autorizzazione  che  e'  stata  legislativamente
disposta nei  confronti  di  ILVA  S.p.A.,  a  mente  del  successivo
articolo 3). 
    In realta' l'applicazione  dell'art.  3,  legge  231/2012  sembra
violare, anche sotto altro aspetto, il  principio  costituzionale  di
uguaglianza,  nei  termini  sopra  indicati  (per  la  ingiustificata
disparita'  di  trattamento  tra  situazioni  analoghe   e   per   la
irrazionalita-incoerenza della diversita' di disciplina). 
    E  invero  la  suddetta  legge,   all'art.   1,   introduce   una
fattispecie,  quella  di  "stabilimento   di   interesse   strategico
nazionale"  -  prescrivendo  che  deve  trattarsi   di   stabilimento
individuato con decreto del Presidente del Consiglio dei  Ministri  e
che presso di esso devono essere occupati non meno di 200  lavoratori
dipendenti, compresi quelli ammessi al  trattamento  di  integrazione
dei guadagni - in relazione alla quale prevede, per  le  imprese  che
abbiano le suddette caratteristiche, una particolare  disciplina,  in
particolare la possibilita' di ottenere  l'autorizzazione,  da  parte
del  Ministero  dell'Ambiente,   alla   prosecuzione   dell'attivita'
produttiva (per un  periodo  non  superiore  a  36  mesi),  anche  se
l'autorita' giudiziaria abbia  adottato  provvedimenti  di  sequestro
che, a norma del comma 4 del predetto articolo 1,  "non  impediscono,
nel  periodo  di  tempo  indicato  nell'autorizzazione,   l'esercizio
dell'attivita' di impresa". 
    A parte qualunque  rilievo  sulla  generalita'  potenziale  della
suddetta norma, trattandosi di  legge  solo  formalmente  generale  e
astratta, ma il cui fine precipuo immediatamente evidente  -  per  la
tempistica e le modalita' di  approvazione  del  provvedimento  -  e'
stato quello di regolamentare un caso singolo (ma  si  tratta  di  un
profilo non rilevante nel presente giudizio), emerge chiaramente  che
la  "prosecuzione   dell'attivita'   produttiva"   e/o   "l'esercizio
dell'attivita'  di  impresa"   degli   stabilimenti   di   "interesse
strategico nazionale" (ove ne fossero individuati altri,  diversi  da
quello di ILVA S.p.A.) sono realta'  concettuali,  casi  della  vita,
differenti rispetto a quello della prevista  commercializzazione  dei
prodotti, realizzati antecedentemente al  provvedimento  ministeriale
autorizzativo emesso ex art. 1, legge 231/2012,  eventualmente  posti
sotto sequestro dall'autorita' giudiziaria che, dunque,  non  possono
essere immessi in commercio dagli ulteriori stabilimenti di interesse
strategico nazionale, nonostante l'autorizzazione  alla  prosecuzione
dell'attivita'  imprenditoriale,  in  assenza  di  specifica   deroga
all'art. 321 c.p.p. introdotta da altra norma di rango primario. 
    Ebbene la norma inserita nel successivo art. 3,  comma  3,  della
legge 231/2012 introduce solo per ILVA S.p.A., tra  gli  stabilimenti
di interesse strategico nazionale, una disciplina di ulteriore favore
(diversamente da quanto dedotto dalla difesa nella memoria  difensiva
depositata il 10 gennaio c.a.), prevedendo espressamente ed  ex  lege
la prosecuzione dell'attivita' produttiva nel siderurgico (mentre per
gli altri  tale  facolta'  puo'  essere  concessa  solo  con  decreto
ministeriale, previa valutazione della  necessita'  di  salvaguardare
l'occupazione e la produzione,  da  bilanciare  con  altri  interessi
eventualmente   contrapposti);   e   decretando,   soprattutto,    la
commercializzazione dei prodotti  realizzati  anche  antecedentemente
alla entrata in vigore del decreto-legge  207/2012  (nonostante  essi
fossero, al momento di entrata in vigore del  decreto-legge  e  della
successiva legge di conversione, sottoposti a sequestro  preventivo),
laddove  tale  analoga  possibilita'  non  e'   concessa   ad   altri
stabilimenti,  per  i  quali  possa  essere  autorizzato  l'esercizio
dell'attivita' di impresa, pur in presenza  di  un  provvedimento  di
sequestro. 
    L'incoerenza interna della legge  appare  palese,  anche  ove  si
voglia prescindere dal fatto che mentre gli stabilimenti di interesse
strategico nazionale dovranno, in futuro, essere  individuati  da  un
decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, quello condotto da
ILVA S.p.A. nel capoluogo jonico e' tale per legge. 
    In virtu' di tali considerazioni emerge, dunque, chiaramente  una
ingiustificata disparita' di trattamento anche tra singole situazioni
aziendali "particolari", che  sono  state  ritenute  dal  legislatore
meritevoli di disciplina derogatoria, rispetto alle comuni  attivita'
imprenditoriali - cioe'  gli  stabilimenti  di  interesse  strategico
nazionale  regolamentati  dalla  legge  231/2012  -  in  quanto,   in
connessione  alla  previsione  legislativa  in  forza   della   quale
solamente ILVA S.p.A. e' autorizzata alla prosecuzione dell'attivita'
di impresa, ad essa  viene  riconosciuta  dalla  legge  la  esclusiva
facolta' di commercializzare prodotti posti sotto sequestro. 
    Tale  prerogativa  impone,  come  si  e'   detto,   all'autorita'
giudiziaria il dissequestro dell'acciaio,  essendo  incompatibile  la
permanenza del vincolo reale con la sua  commercializzazione,  mentre
nella disciplina generale delle attivita' di impresa  condotte  dagli
stabilimenti di interesse strategico nazionale, contenuta negli artt.
1 e 2 della legge  231/2012,  ci  si  limita  a  prevedere  solo  una
facolta' d'uso  ex  lege  dei  beni  aziendali,  non  ontologicamente
incompatibile con il sequestro (al piu' ne frustra la funzione,  come
sovente ricordato dalla  Corte  di  Cassazione),  essendo  possibile,
invece, la revoca del sequestro del prodotto realizzato anteriormente
al  provvedimento  con  cui  e'  stata  autorizzata  la  prosecuzione
dell'attivita' imprenditoriale,  a  mente  dell'art.  321,  comma  3,
c.p.p, solo quando sono venute meno le esigenze  preventive  (secondo
la disciplina generale). 
    La Corte costituzionale  nella  sentenza  n.  80  del  1969,  nel
delineare i  profili  di  legittimita'  delle  "leggi  singolari"  ha
rilevato che esse devono corrispondere  a  una  obiettiva  diversita'
della situazione considerata, rispetto a realta' omogenee,  la  quale
giustifichi razionalmente  la  disciplina  differenziata  per  questa
adottata: "occorre percio' che la  ratio  della  legge  si  esaurisca
nella  fattispecie  da  essa  disciplinata,  e  non  si   estenda   a
situazioni,  concrete  o  ipotizzabili,  le  quali,  pur  presentando
elementi comuni con essa, se ne diversifichino in modo da non rendere
giustificabile l'applicazione ad esse della normativa disposta per il
caso singolo. Ove queste condizioni non esistano, vale a dire ove  la
ratio della legge sia tale da coprire situazioni omogenee rispetto  a
quella singolarmente considerata, si avra' violazione  del  principio
di eguaglianza, perche' si determineranno  ingiustificate  condizioni
di vantaggio o di svantaggio per i soggetti della  situazione  e  del
rapporto regolato dalla legge, in relazione ai soggetti  della  serie
delle situazioni o dei rapporti che ne sono stati esclusi". 
    Nel caso di specie, se la ratio ispiratrice  della  legge  e'  la
salvaguardia dei livelli produttivi ed occupazionali di una industria
di interesse strategico nazionale  (ma,  si  ripete,  appare  davvero
arduo ipotizzare il collegamento tra tale finalita' - gia' assicurata
dalle norme che  prevedono  la  facolta'  d'uso  degli  impianti,  in
costanza di sequestro - e l'autorizzazione  a  commerciare  l'acciaio
precedentemente realizzato, oggetto  di  sequestro  perche'  ritenuto
prodotto di reati), si deve  pertanto  riconoscere  che  nella  legge
impugnata si e' provveduto in merito a una  situazione  singola,  che
risulta non  obiettivamente  diversa  da  altre  situazioni  per  cui
varrebbe la medesima ratio ispiratrice della legge stessa (ossia, gli
altri  stabilimenti   di   interesse   strategico   nazionale),   con
conseguente violazione dell'art. 3 della Costituzione. 
    Se poi  l'art.  3,  comma  3,  legge  231/2012,  autorizzando  la
commercializzazione   dei   prodotti   realizzati    antecedentemente
all'entrata in vigore del decreto-legge 207/2012,  abbia  voluto  non
solo rimuovere il limite legale al compimento di atti di disposizione
sui beni in sequestro, ma anche introdurre una sorta di  legittimita'
ex post del prodotto realizzato, oltre che verificarsi  una  indebita
violazione delle prerogative dell'autorita' giudiziaria  (su  cui  ci
diffondera'  infra),  verrebbe  irragionevolmente  violato  anche  il
principio di irretroattivita' della  legge,  principio  generale  del
nostro ordinamento e fondamentale valore di civilta' giuridica - come
ricordato dal GIP nel provvedimento impugnato -  che  il  legislatore
puo' derogare, emanando norme retroattive, purche'  trovino  adeguata
giustificazione sul piano della ragionevolezza e non  si  pongano  in
contrasto con altri valori ed interessi costituzionalmente  protetti,
cosi da non incidere  arbitrariamente  sulle  situazioni  sostanziali
poste in essere  da  leggi  precedenti  (cfr.  sentenze  della  Corte
costituzionale n. 229 del 1999, n. 432 del 1997,  nn.  6  e  153  del
1994, n. 283 del 1993). 
    A prescindere dal profilo poc'anzi illustrato, la previsione,  in
favore di ILVA S.p.A.,  della  possibilita'  di  commercializzare  il
prodotto sotto sequestro, contenuta nel citato art. 3, comma 3, legge
231/2012,  presenta  profili  di  illegittimita'  costituzionale  non
manifestamente infondati anche in riferimento agli artt.  102  e  104
della  Costituzione,  che  tutelano  le  prerogative  della  funzione
giudiziaria, perche' di  fatto  la  legge  incide  su  una  attivita'
giurisdizionale  in  corso  (il  procedimento  penale   avviato   nei
confronti dei soggetti sopra indicati  in  relazione  a  reati  anche
particolarmente gravi, quali il disastro doloso e l'avvelenamento  di
sostanze alimentari), ed in particolare sulla possibilita', all'esito
del procedimento, di disporre la confisca del prodotto  di  un  reato
(poiche',  quanto  meno  sino  alla  emanazione   del   decreto-legge
207/2012,   per   i   motivi   innanzi   esposti,   la   prosecuzione
dell'attivita' di impresa condotta  presso  le  aree  a  caldo  dello
stabilimento ILVA di Taranto  appare  contraddistinta  da  illiceita'
penale). 
    Come e' noto gli artt. 101 e ss. della Costituzione delineano  un
sistema giurisdizionale di chiara  autonomia  ed  indipendenza  della
magistratura ordinaria da ogni altro potere dello Stato,  essendo  il
giudice soggetto "solo alla legge". 
    La Corte costituzionale ha da  tempo  chiarito  che  la  funzione
giurisdizionale non puo' dirsi violata quando il  legislatore  agisca
sul piano astratto  delle  fonti  normative,  senza  ingerirsi  nella
specifica risoluzione delle concrete fattispecie in giudizio, per  il
solo fatto di un intervento legislativo con efficacia  retroattiva  o
che interagisce con controversie in corso  (in  tal  senso,  cfr.  le
sentenze n. 229 del 1999, n. 432 del 1997, n. 397 del  1994,  n.  402
del 1993). 
    In quest'ottica la Consulta ha dichiarato che anche le cosiddette
leggi-provvedimento (quelle, cioe', aventi la forma della legge ma un
contenuto provvedimentale, in quanto provvedono concretamente su casi
e rapporti specifici) sono legittime, a  certe  condizioni  ed  entro
limiti specifici, tra cui la  ragionevolezza  ed  il  rispetto  della
funzione giurisdizionale in ordine  alla  decisione  sulle  cause  in
corso (cfr. Corte cost. Sentenze n. 267/2007, n. 137/09, n. 241/08). 
    Appare utile rimarcare, a tale riguardo,  che  uno  dei  principi
fondamentali dello Stato di diritto e del nostro diritto pubblico  e'
che il Parlamento non eserciti funzione giurisdizionale, se non negli
isolati casi previsti dalla Carta costituzionale (si pensi alla messa
in stato di accusa del Presidente della Repubblica): esiste,  dunque,
una riserva di giurisdizione specie nei giudizi pendenti (cfr.  Corte
Cost., sent. n. 321/1998 e n. 123/1987). 
    Nel caso di specie annullare  gli  effetti  di  un  provvedimento
cautelare  ex  lege  (si  ribadisce,  infatti,  che   consentire   la
commercializzazione del prodotto finito e/o semilavorato posto  sotto
sequestro equivale  alla  revoca,  rectius  alla  eliminazione  degli
effetti propri della misura cautelare reale) e' una  invasione  della
sfera di competenza del potere giudiziario e si  manifesta  come  uso
abnorme della funzione normativa,  perche'  attraverso  lo  strumento
legislativo e' stato direttamente  modificato  un  provvedimento  del
Giudice  per  le  indagini  preliminari  di  Taranto  (il   sequestro
preventivo del 22 novembre 2012), senza peraltro modificare il quadro
normativo sulla base del quale  era  stato  emanato  il  decreto  del
Giudice. 
    Trattasi, inoltre, di atto normativo privo di qualunque carattere
di generalita' ed astrattezza (la facolta' di commercializzazione del
prodotto in sequestro e'  stata  prevista  solo  in  favore  di  ILVA
S.p.A.) che non ha altra funzione, allora, che quella  di  sostituire
la decisione parlamentare alla valutazione dell'autorita' giudiziaria
circa la disponibilita' dei beni da parte dell'impresa. 
    La suddetta norma di legge (art.  3,  comma  3,  legge  231/2012)
violerebbe altresi' gli artt. 24 e 112 della Costituzione, perche' si
pone in netto contrasto con il dovere dell'ordinamento di reprimere e
prevenire  reati,  attraverso  l'azione  dei  pubblici  ministeri   e
l'eventuale sollecitazione del privato leso nei suoi diritti. 
    Se, infatti, il provvedimento inibitorio emesso  dal  GIP  ha  lo
scopo di apporre un vincolo di indisponibilita' su una  cosa  il  cui
uso e' ricompreso nell'agire vietato dalla legge, una norma  ad  hoc,
che di fatto annulla gli effetti  del  provvedimento  cautelare  gia'
disposto dall'Autorita' Giudiziaria, lede  l'inderogabile  dovere  di
prevenzione e repressione dei reati, che pure il Giudice delle  leggi
ha riconosciuto come bene oggetto di protezione costituzionale  (cfr.
Corte cost. sentenza n. 34/1973). 
    Nel caso di specie l'intervento legislativo censurato  non  opera
sul piano sostanziale ma incide su  diritti  processuali  e,  dunque,
vulnera il diritto alla tutela giurisdizionale, a presidio del  quale
la norma costituzionale invocata e' posta. 
    Si impone conseguentemente, a mente dell'art. 23, comma 2,  legge
87/1953, la sospensione del presente giudizio di  appello  in  attesa
della decisione della Consulta, atteso che il termine previsto per la
decisione ai sensi dell'art. 322  c.p.p.,  che  rinvia  all'art.  310
c.p.p. - venti giorni dalla ricezione degli atti - non e' previsto  a
pena di decadenza (cfr. Cass. sez. 3, Sentenza n. 2137 del  7  luglio
1998), differentemente da quello stabilito dall'art. 309,  comma  10,
c.p.p. per la decisione sul riesame. 

(1) Tale giudizio e' confermato dal fatto che analoghe  questioni  di
    incostituzionalita' sono state sollevate dalla Procura innanzi al
    Gip,   contestualmente   alla   richiesta   di   "modifica    del
    provvedimento di  sequestro  preventivo  -  revoca  dei  custodi"
    depositato presso la cancelleria  dei  Giudice  per  le  indagini
    preliminari il 4 gennaio 2013 e riguardante la differente vicenda
    della immissione  in  possesso  di  ILVA  S.p.A.  negli  impianti
    sequestrati il 25 luglio 2012 (in forza degli artt.  1  e  3  del
    decreto-legge 207/2012).